Crisi tra le due guerre 1919-1939 by Richard J. Overy

Crisi tra le due guerre 1919-1939 by Richard J. Overy

autore:Richard J. Overy
La lingua: ita
Format: mobi, epub
pubblicato: 2014-02-25T23:00:00+00:00


Fine del capitalismo?

Col senno di poi è facile dire che negli anni Trenta il capitalismo s’era trovato in una fase di transizione e non alla crisi finale. L’incapacità di mettere in piedi un’economia internazionale in grado di autobilanciarsi nella difficile congiuntura degli anni Venti aveva accelerato la tendenza all’intervento statale e al mercato manovrato. Negli anni Trenta era convinzione diffusa che bisognasse fare appello a un nuovo ordine. «I tempi del liberalismo economico puro e semplice sono definitivamente tramontati», proclamava il ministro dell’economia di Hitler, Hjalmar Schacht, nel 1934.

I governi fascisti amavano pensare di avere elaborato un nuovo sistema integralmente originale, ma gran parte di ciò che mettevano in pratica la si ritrovava anche nell’arsenale di paesi di opposta ideologia. È indubbio che il fascismo abbia piegato l’economia al servizio dei propri scopi politici (espansione militare, pulizia razziale, una società «senza classi»), come pure che questi regimi abbiano in genere esercitato coercizioni su forza-lavoro e imprese per i propri interessi, ma strumenti efficaci di controllo economico su commercio, investimenti, agricoltura e banche venivano utilizzati anche nei paesi democratici. Il livello più alto di regolamentazione statale, di forzose pianificazioni del mercato, di scambi controllati e di monete manovrate era un riflesso di uno sforzo generalizzato dei regimi capitalisti per gestire la crisi. L’orientamento verso un maggiore dirigisme era un portato della congiuntura economica. Dopo la grande crisi, il mondo degli affari non fu più in condizione di rimettersi in sesto. Il capitalismo regolamentato, ciò che gli economisti tedeschi definivano «l’economia pianificata» (die gelenkte Wirtschaft), subentrò alla passività dello stato e alla libertà degli affari.

Il generale movimento di distacco dalle tradizioni di laissez-faire destò profonde preoccupazioni nel mondo delle imprese. L’aumento dell’intervento statale si presentava agli occhi degli imprenditori sospetto, una sorta di socialismo surrettizio. Dove possibile si opposero alla nazionalizzazione dell’industria, sebbene il salvataggio delle aziende in bancarotta al tempo della recessione spesso lo rendesse inevitabile. Non gradivano sentirsi dire come investire e a chi vendere. L’esempio di uno dei baroni della siderurgia tedesca, Fritz Thyssen, è istruttivo. Nel 1933 fu uno dei pochi imprenditori tedeschi ad accogliere a braccia aperte l’ascesa di Hitler, nella convinzione che avrebbe posto fine al conflitto di classe. Sei anni più tardi, dopo l’internamento di suo nipote in un campo di concentramento, se ne andò via perché il controllo statale sotto i nazisti rendeva l’esistenza ben poco differente da quella che si conduceva nella Russia sovietica. La sua proprietà industriale passò allo stato e il suo giro d’affari fu posto sotto amministrazione fiduciaria pubblica. Tre anni prima Gustav Krupp, il più grande produttore tedesco di armi, si lamentava con un banchiere svizzero amico che i capitalisti in Germania «non se la passavano meglio degli abitanti di Timbuctu».

Gli imprenditori, posti di fronte alle instabilità dell’economia, ebbero le reazioni più varie, ma in generale avevano ben poco da offrire come alternativa concreta contro la recessione. In effetti gran parte di quel che fecero ebbe come risultato, se mai, di peggiorare la situazione. Molti scelsero di istituire organizzazioni



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